Una nota di Ilaria Guidantoni, autrice di "Chiacchiere, datteri e thé. Tunisi, viaggio in una società che cambia", in relazione agli eventi che hanno interessato la Tunisia nei giorni scorsi.
Il primo omicidio politico dopo la rivolta del 14 gennaio 2011, anzi il secondo, ma del primo quasi nessuno ha voluto parlarne come se il silenzio annullasse le scosse di terremoto: non si trattava di movimenti tellurici di assestamento quanto del preludio di una nuova deflagrazione. Sconcertante sì, inattesa no. Preparata inoltre, vista la facilità plateale dell’accaduto. Il clima era quello di un andamento lento verso uno scontro frontale tra laici-laicisti e religiosi tradizionalisti, che tante volte avevo sperato si evitasse nel segno del dialogo e della composizione. Purtroppo il compromesso storico dell’alleanza di governo era fallito da tempo e le due forze in campo erano di fatto separate in casa. Chiunque sia il responsabile o i responsabili – politici e materiali esecutori, che non è detto siano propriamente coincidenti – è certo che hanno reso un cattivo servizio, al paese moralmente e anche al governo, semmai da lì provenissero: la spaccatura di EnnahDa, dimissioni e caduta di fatto del governo lo dimostrano. L’invito è a non farsi prendere dall’onda delle emozioni e dell’emotività e provare a ripartire interpretando, forse un po’ cinicamente, questo dolore come una necessità storica, nell’ottica della dialettica hegeliana. Il sacrificio di un uomo giusto e di esempio potrebbe essere il detonatore non della guerra civile ma dell’appello alla responsabilità civile della popolazione. In tal senso l’abbraccio collettivo, l’invito al dialogo sui valori essenziali della tutela dei diritti e piani operativi per il lavoro (cavallo di battaglia della nahDa in campagna elettorale) sono i punti dai quali ripartire. In questo momento il paese conta soprattutto sui movimenti per la tutela dei diritti e in particolare è alle donne che spetta un compito di richiamo alla concretezza e di invito alla calma – come all’indomani della rivolta – mentre i giovani, stando a quanto si legge sulla rete sono (comprensibilmente) preda di sconcerto, rabbia ed emozioni incontrollate. Un’altra ancora di salvezza ritengo sia l’UGTT (uno dei sindacati più importanti del mondo arabo con oltre mezzo milione di iscritti): lo strumento concreto per stabilizzare il paese. E’ il momento che l’Europa faccia arrivare forte la propria voce e il proprio sostegno non per gridare all’allarme di deriva islamica, termine confuso per altro, ma per invitare a trasformare la rabbia nell’impegno. Parole confortanti di dialogo che richiamano alla tradizione autentica tunisina, una società multiculturale e multicolore, sono giunte dall’Arcivescovo di Tunisi e dalla Chiesa italiana. Ma la voce deve alzarsi: non puntiamo il dito contro qualcuno ma tendiamo una mano a qualcuno. La giustizia poi faccia il proprio corso mentre sembra latitare. Al di là del colpevole, le responsabilità sono sempre collettive. Smettiamola di fare pronostici e scommesse che non rendono giustizia ad un martire. L’ipotesi del governo tecnico potrebbe essere la soluzione estrema per ricostruire la macchina statale e il mercato del lavoro. Si sa che si tratterebbe di un intervento in emergenza con tutte le conseguenze del caso. In questo momento mantenere la sicurezza, offrendo qualche spiraglio è l’unica via. Attenzione però a cercare di sedare un popolo arrabbiato: il rimedio può essere peggiore del male. Gli episodi di scontri con la polizia sono un allarme. Speriamo che l’esercito funzioni da cuscinetto come due anni fa.
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