mercoledì 30 ottobre 2013

“E’ arrivato l’ambasciatore” di Annamaria Piccione


La canzone italiana che fa da colonna sonora al libro è il mood del libro giocato sull’intimità dei rapporti veri e sul ruolo fondamentale della lingua con il suo carico di emozioni, il gusto del narrare, quell’ascoltare incantato dell’infanzia che disegna una memoria indelebile e archetipa nella persona perché è la memoria del cuore come certi sapori e profumi che si portano alla mente i primi ricordi. E’ tra l’altro per me un suono e un refrain fin troppo noto che mio padre canta ai miei nipoti e questo non mi ha potuto che colpire e mettere in un’empatia fin troppo facile. La storia per ragazzi è anche certamente, più di altre, una novella per adulti, quasi una metafora, potrei definirla una docufiction della realtà che stiamo vivendo, talora distrattamente. E’ così infatti che uno dei protagonisti, nonno Michele, un medico di sensibilità nonché impegnato politicamente in senso civile, finché non gli capita un incidente di percorso – è il caso di dire – un incontro inaspettato che sconvolgerà la propria vita, che non si accorge di un mondo che gli scorre accanto.
La lingua non ha l’ingenuità tipica della letteratura per l’infanzia o comunque per la prima fase dell’adolescenza, non si colora di elementi teneri e di facile apprezzamento ma attraversa la complessità dei personaggi e coglie la maturità arrivata anzi tempo del protagonista, un ragazzo eritreo, Ayub, partito dall’Eritrea per cercare il fratello Hakim venuto in Italia in cerca di fortuna e poi scomparso nel nulla come sembra. E’ in seguito a questo episodio e al suo esito tragico che la mamma di Ayub si è ammalata di dolore e che la ragione per la quale piccolo decide di intraprendere l’avventura.
Diversamente dalla favole classiche non c’è in questo un lieto fine a senso unico ma la complessità della ricerca della felicità che è il messaggio bello e insieme difficile da accettare del racconto. Il protagonista conosce un’opportunità e uno scenario di sviluppo potenziale per la sua vita che non avrebbe mai neppur immaginato se non ci fosse stato l’allontanamento di Hakim e la depressione della madre. Probabilmente se avesse raggiunto quello riteneva il suo desiderio, il ricongiungimento con il fratello, non avrebbe trovato una famiglia ad accoglierlo e non si sarebbe impegnato per un futuro di studi importante. Non è tanto però la fantasia di cosa sarebbe stato, perché la storia non si scrive con i sé; è piuttosto la consapevolezza che la vita non è un tracciato lineare e che la sua meraviglia spesso ci arriva da un dolore, una delusione, che la vita è intrecciata a doppio filo con la morte.
L’elemento del sogno non è quello che arriva con il tocco di una bacchetta magica, quanto la capacità di cogliere il miracolo e lo stupore nelle piccole cose, perché la vita spesso è più fantasiosa dell’immaginazione umana.
E’ una novella decisamente per giovani moderni abituati a rinunciare ad un sogno idilliaco che può motivarli a rimboccarsi le maniche nella consapevolezza che in fondo la costruzione del proprio futuro è una responsabilità personale. Ayub non si rassegna mai e le porte di una vita nuova gli si spalancano nel momento peggiore, quando finisce sotto le ruote di una macchina. Ma non è mai detta l’ultima parola.
Nel libro è centrale l’incontro tra le persone e i caratteri sono disegnati senza assolutismi e semplificazioni, con sfumature e contraddizioni che rendono i personaggi reali e credibili, capaci di piegarsi alla vita in modo sorprendente.
Da sottolineare è l’uso della lingua e dei suoi diversi registri come un elemento fondamentale per disegnare le persone e le sfumature e il dialogo tra le culture attraverso la lingua che diventa nel protagonista la chiave di accesso, essendo l’unico a possedere sia il tigrino sia l’italiano.
Infine, in un mondo sempre più piccolo, è interessante la scoperta di un paese lontano, l’Eritrea, per i suoi legami con l’Italia, perché molti luoghi ormai dimenticati ci fanno da specchio per la memoria e per ritrovare, quindi capire, parte della nostra storia.
E’, in un’ultima analisi, un modo per introdurre i ragazzi nella vita quotidiana, in un mondo nel quale il viaggio comincia a casa propria dall’incontro inevitabile con l’altro e con il quale occorre trovare un codice comune.

“E’ arrivato l’ambasciatore”
di Annamaria Piccione
Casa Editrice Mammeonline
Collana Crisalidi e farfalle
Illustrazioni di Antonio Boffa
8,00 euro

giovedì 24 ottobre 2013

Editoriaraba - Tunisia: work in progress


di Chiara Comito

Oggi avrei voluto parlarvi dell’imminente Fiera del libro di Tunisi, che dovrebbe essere inaugurata domani 25 ottobre. Uso il condizionale perché non so se l’inaugurazione avrà luogo visto quanto successo nella giornata di ieri, che ha portato il Governo a programmare tre giorni di lutto nazionale. Staremo a vedere. Non sarebbe comunque la prima volta che una manifestazione letteraria come questa viene annullata o posticipata. Un precedente recente si era avuto in Egitto, qualche anno fa.
In attesa di avere qualche aggiornamento dagli organizzatori e dagli organi di stampa, vi segnalo la recensione del libro La rivolta dei dittatoriati, di O. Mejri e A. Hagi (Mesogea, 2013) che ho scritto per ResetDOC, in cui chiudevo dicendo che per costruire la società tunisina post-rivoluzione ci sarebbero voluti ancora molto tempo e molte “cure”…

***

Se c’è una frase in grado di riassumere la relazione tra regimi oppressivi e rivolte è quella scritta dall’intellettuale marocchino Abdellatif Laabi nel suo ultimo saggio intitolato Un autre Maroc (Éditions de la différence, Paris, 2013): “L’oppressione finisce per produrre presso coloro che ha schiacciato un antidoto che fa risvegliare le coscienze e che fa bruciare nuovamente la fiamma della lotta”.
La Tunisia sotto il regime di Ben Ali era un Paese oppresso. All’interno di confini considerati stabili e democratici dall’opinione pubblica internazionale, la società tunisina viveva in una condizione schizofrenica, schiacciata tra le angherie e le ruberie del clan Ben Ali-Trabelsi, la repressione esercitata dalle forze di polizia e una censura pervasiva che annullava l’identità e l’anima dei tunisini.
Nello spazio da vivere residuale, necessariamente apolitico e privo di libertà, viveva (o meglio, sopravviveva) l’individuo, il dittatoriato del libro La rivolta dei dittatoriati, scritto a quattro mani da Ouejdane Mejri e Afef Hagi e di recente pubblicato da Mesogea. Le due autrici, la prima docente e ricercatrice universitaria, dottoranda in psicologia la seconda, entrambe attiviste per Pontes, l’associazione dei tunisini in Italia, così definiscono i dittatoriati: “esseri disciplinati dalla dittatura e condizionati per stare alle regole del controllo sistematico e della punizione arbitraria”.
Nei primi due capitoli Mejri e Hgi ricostruiscono la vita sotto la dittatura: parlare era pericoloso, scrivere e ascoltare lo era altrettanto. I sensi di un intero Paese erano stati messi a tacere sotto la minaccia di torture e intimidazioni. Chi sapeva non diceva e chi poteva emigrava in cerca di un presente e un futuro migliori, lontano da quella dittatura mascherata da democrazia in cui il potere era nelle mani del partito e della famiglia del Presidente.
Sono molto interessanti le pagine in cui le autrici descrivono il profilo di Ben Ali, arrivato al potere nel 1987 grazie ad un colpo di stato medico ai danni dell’anziano Bourghiba. Un golpe, ci ricordano le autrici, in cui l’Italia ebbe un ruolo non secondario e ben poco edificante. Ben Ali viene descritto come un personaggio del tutto privo di carisma ma ossessionato dal culto dell’immagine: “Non gli mancava mai il trucco, la tinta ai capelli e neanche il botox per mantenerlo giovane”. Un uomo che sembra fatto di cartapesta: solido all’apparenza, vuoto all’interno. Incapace di comunicare con il “suo” popolo, ma molto abile nel reprimere, nascondere, controllare e far apparire la Tunisia, agli occhi del mondo, come un partner commerciale e politico affidabile, oltre che un luogo di villeggiatura ideale.
Eppure, sotto la coltre di paura e silenzio, l’antidoto all’oppressione cominciava a manifestarsi e si andava declinando in diversi modi: boom demografico, informatizzazione della società, attivismo virtuale e reale. Continua su ResetDOC!

mercoledì 23 ottobre 2013

"Lampedusa" di Marta Bellingreri


Conversazioni  su isole, politica, migranti con il Sindaco Giusi Nicolini

«Che posso dire, io, da Lampedusa? Posso dire che quantomeno salvarli è doveroso. Quando chiedo di non lasciare sola Lampedusa, chiedo in realtà di non abbandonare sole queste persone a un destino assurdo. Chiedo di cominciare a pensare a un sistema di accoglienza reale e non fittizio non solo a Lampedusa, ma in tutta Italia. Chiedo di cominciare a capire che c’è posto e spazio e che abbiamo bisogno dei migranti. […] La politica, soprattutto italiana, ha bisogno di una grande rivoluzione etica: non si ruba, non si spreca il denaro pubblico. Non si calpesta la Costituzione. Non si calpestano le leggi e non si calpestano i diritti umani. Non è gridando all’invasione e ignorando i diritti umani che si devono chiedere i voti. […] Ebbene, la grande maggioranza delle persone che passano da Lampedusa ha poi avuto il riconoscimento dello status di rifugiato politico o una protezione umanitaria. E, allora, la domanda che pongo è: perché in un Paese come l’Italia e in Europa il diritto di asilo deve essere chiesto a nuoto? Perché bisogna lasciare che madri con i bambini in braccio si imbarchino per il Mediterraneo? Perché bisogna occuparsi solo dei sopravvissuti che arrivano qui? Non è un crimine aspettare che i migranti siano decimati dal mare? Comunque i profughi partono e arrivano, non hanno un’altra possibilità».

lunedì 21 ottobre 2013

Editoriaraba - Di fortezze, frontiere, viaggi e parole


Tante, tantissime parole sono state pronunciate e scritte nelle ultime settimane a proposito delle centinaia di uomini, donne e bambini che, partiti dalle coste del Mediterraneo del Sud, hanno trovato la morte a poche centinaia di metri dalle coste della nostra Lampedusa. Come ha scritto Gabriele del Grande, questa è una “guerra che l’Europa combatte ogni giorno in frontiera, contro i poveri che rivendicano il diritto alla mobilità disobbedendo alle nostre folli leggi sull’immigrazione”.

E si è fatto un gran parlare anche delle condizioni di viaggio dei migranti e dei profughi, della sofferenza, del disagio, del dolore, delle speranze e di quel sogno di una vita (non migliore, a volte proprio il sogno di una vita e basta) che li spinge a prendere la decisione di affidarsi ai trafficanti, e affrontare il mare per raggiungere l’Italia, la terra promessa.

Per capirli, forse sarebbe bastato leggere gli scrittori arabi, in particolare i nordafricani, che scrivono di viaggi e migrazioni già da un bel po’.

Oltre a libri che parlano del Mediterraneo, nell'articolo ci sono anche due brani che parlano di altre frontiere, per non dimenticarci che in tutto il mondo ogni giorno centinaia di persone rischiano la propria vita per oltrepassare le frontiere delle tante fortezze di questa Terra.

Tahar Ben Jelloun, Partire
Parecchie di queste ragazze erano innamorate di Azel, ma lui le scoraggiava dicendo loro la verità a proposito della sua situazione: “Ho ventiquattro anni, sono laureato, non ho un lavoro, non ho soldi, non ho una macchina, sono un caso umano, sì, sono anch’io alla deriva, pronto a tutto pur di andarmene, pur di vedere questo paese solo in cartolina (…). Io ho già tentato di attraversare i quattordici chilometri che ci separano dall’Europa, ma sono stato truffato; e, comunque sia, ho avuto più fortuna di mio cugino Noureddine, che è annegato a pochi metri da Almeria, non so se mi spiego”. Le ragazze lo ascoltavano, e alcune di loro piangevano. Venivano tutte da famiglie in cui qualche parente aveva tentato di partire allo stesso modo. (traduzione dal francese di A. M. Lorusso, Bompiani 2008)

Ghassan Kanafani, Uomini sotto il sole
Nessuno dei quattro aveva voglia di parlare, non solo perché la fatica li aveva stremati, ma perché ognuno era immerso a fondo nei propri pensieri. L’enorme camion fendeva la strada insieme con i loro sogni, le loro famiglie, le loro ambizioni e le loro speranze, miseria e disperazione, forza e debolezza, passato e futuro, come se stessero spingendo un’immensa porta verso un nuovo destino sconosciuto. Tutti gli occhi erano puntati sulla superficie di quella porta, come ad essa legati da fili invisibili. (traduzione dall’arabo di I. Camera D’Afflitto, Sellerio, prima edizione 1991)

Fouad Laroui, Essere qualcuno, in “L’esteta radicale”
Vedono passare delle barche lontano, delle navi cisterna, dei traghetti. Dopo il freddo della notte, adesso è il sole che li acceca e brucia loro gli occhi. (…) Di quando in quando dei delfini vengono in gruppo a fare delle capriole davanti alla barca, per poi andarsene. Lahcen è affascinato da questi animali che non aveva mai visto in vita sua e che sembrano divertirsi mentre lui soffre atrocemente. Vale meno di un animale? (traduzione dal francese di C. Vezzaro, Del Vecchio Editore 2013)

Hassan Blasim, Il camion per Berlino, in “Il matto di piazza della Libertà”
Il camion per Berlino, pero, questa volta non proseguì il suo viaggio notturno se non per cinque ore, poi si arrestò di colpo, fece inversione e tornò sui suoi passi ad una velocità folle. Nell’oscurità, i giovani sentirono una stretta al cuore. (…) Si misero a bisbigliare. Alcuni recitavano preghiere o versetti del Corano, tra sé e sé o a voce appena percettibile. Un ragazzo si mise a ripetere ad alta voce il versetto del Trono. La sua bella voce era però guastata da un tono piagnucoloso che accresceva l’angoscia degli altri passeggeri. (traduzione dall’arabo di B. Teresi, Il Sirente 2012)

Laila Lalami, La speranza e altri sogni pericolosi
“Tutti fuori dalla barca, ora!”, grida Rahal. “Da qui in poi dovete continuare a nuoto”. Aziz si lascia immediatamente cadere in acqua e comincia a nuotare. Come gli altri passeggeri, Murad si limita invece a guardare stupefatto il capitano. Si aspettava di essere portato fino a riva, dove avrebbe potuto facilmente disperdersi e poi nascondersi. L’idea di dover nuotare fino alla costa è terribile, soprattutto per chi non è originario di Tangeri e non è abituato alle sue acque”. (traduzione dall’inglese di M. G. Cavallo, Fusi orari 2007)

Rachid Nini, Diario di un clandestino
Ieri è naufragato un barcone. L’ho visto in tivù. Come navi stremate, sulla costa rocciosa giacevano sette cadaveri. Stavo mangiando quando mi sono ritrovato davanti quelle immagini e, di colpo, mi è passata la fame. C’era qualcuno che li trascinava fino alla spiaggia e li copriva con dei teli. I corpi fradici erano stati messi in fila uno accanto all’altro. (traduzione dall’arabo di C. Albanese, Mesogea 2011)

“Matite colorate in fondo al mare” di Cinzia Capitanio


Una favola dei nostri giorni, probabilmente una storia di fantasia che ha tutto il sapore di una storia vera, di cronaca e di dolore, ma anche di speranza e di tenerezza. Il racconto è pubblicato dalla Collana Crisalidi e farfalle ad indicare quella fase di passaggio dai 10 ai 15 anni nella quale i ragazzi non sono più bambini ma non ancora adulti. E’ quel periodo delicato ed essenziale nella formazione che va dalla pubertà alla prima adolescenza e che oggi più di una volta rappresenta un momento cruciale perché spesso sinonimo di un cambiamento subitaneo, incontrollabile verso una vita che mima quella degli adulti e che non diventerà mai matura. Per questo mi sembra così importante dedicare loro una narrativa di formazione, non perdere il gusto di dialogare e di insegnare attraverso una metafora che facendo leva sulle emozioni è più immediata e più incisiva e non ha il sapore di una storia morale né di una lezione. In fondo è quello che succede ai due protagonisti o meglio a Marco, il bambino italiano di famiglia agiata, un po’ viziato che si trova di punto in bianco catapultato come in uno specchio nella drammaticità della vita di un suo coetaneo.
La storia è narrata dai due bambini e dai loro diari sui quali scrivono con delle matite colorate che finiscono per entrambi in fondo al mare. E’ l’unica cosa che hanno in comune, Marco e Seydou, che compiono un viaggio per mare, sullo stesso mare e che sognano ad un certo punto di essersi perfino incontrati involontariamente. Sono ‘bravi bambini’ che non si risparmiano nello studio, con la passione del calcio, che è un alfabeto comune, che partono con tanto entusiasmo e passione, e ad un certo punto provano, entrambi, paura, delusione, voglia di tornare a casa. E ancora, sono bambini amati dalle proprie famiglie, rispettivamente, con una sorellina e un fratellino, che amano ma per i quali hanno provato gelosia. La similitudine si ferma qui. In Marco c’è l’abitudine al meglio, la realizzazione dei propri desideri come dovuta e quindi la rabbia, il capriccio; in Seydou c’è la gratitudine per la vita, sempre e comunque, il grande rispetto per l’autorevolezza dei proprio genitori. Marco è in crociera con la propria famiglia e gira per il Mediterraneo; Seydou affronta un doloroso viaggio , fuggendo dal villaggio in Costa d’Avorio a causa della guerra, arrivando in Libia da una zia e quindi partendo per l’Italia, con la speranza di un futuro: affronterà un viaggio della disperazione nella stiva di un peschereccio. 
Cinzia Capitanio

Il diario farà compagnia ad entrambi, sarà il piacere di raccontare una gioia, la consolazione di un momento di sconforto. A Marco è stato regalato dalla mamma e all’inizio vissuto con il fastidio di un impegno del tipo ‘compiti a casa’ anche in vacanza; a Seydou è arrivato come dono gradito dalla zia e sorpresa ancor più meravigliosa della mamma quando gli consegna delle matite colorate. E’ la prima volta che possiede qualcosa di tutto suo e lo difenderà anche nel momento in cui deve gettarsi in mare perché il peschereccio è arrivato troppo vicino alla costa e i trafficanti di uomini temono di essere scoperti. Al villaggio alla scuola tutto era in comune e nessuno poteva portarsi a casa neppure un gessetto colorato. 
All’inizio la distanza tra i due bambini è abissale anche se poi si ritrovano idealmente vicini nel presunto pericolo e in quella paura che fa rifugiare ogni piccolo nelle braccia materne.
Lasciamo i due bambini in vista della terra come sospesi, soprattutto per la vicenda di Seydou. Li ritroviamo nella stessa classe a leggere i propri diari, con l’emozione condivisa, con le risate dei compagni ascoltando i racconti di Marco e le lacrime per quelli di Seydou. E’ un incontro forte che scombussola l’infanzia di Marco, un po’ dorata e poco consapevole e lo avvia ad una conversione. Non ci è dato sapere se il sogno di diventare amici si avvererà né se Marco terrà fede alla sua aspirazione. Mi vengono in mente le parole dello scrittore Luis Borges “Ogni incontro casuale è un appuntamento”. Credo che la vita ci proponga delle occasioni che sta a noi raccogliere e coltivare ed è su questo che si gioca la nostra responsabilità. Non è necessariamente più bravo chi è più sfortunato perché potrebbe perdersi o coltivare la rabbia; è migliore chi si mette in gioco e coltiva i talenti che gli sono stati donati. Mi sembra che la formula di una fiaba vicina al nostro mondo sia una bella iniziativa perché troppo spesso le fiabe non sono credibili e quindi non sono efficaci.
E’ un modo per recuperare quella tradizione orale del raccontare storie ai bambini e ai ragazzi spesso tratte dalla vita, come quelle che il nonno di Seydou gli raccontava e che io stessa ricordo e che sempre più stiamo perdendo. Raccontare storie vuol dire anche educare alle emozioni e all’ascolto che è il primo passo verso la tolleranza.

“Matite colorate in fondo al mare”
Cinzia Capitanio
Illustrazione di Antonio Boffa
Casa Editrice Mammeonline
7,00 euro

venerdì 18 ottobre 2013

Editoriaraba - Alaa Al-Aswani contestato all’Institut du Monde Arabe di Parigi


È successo tutto all’improvviso. Lo scrittore egiziano, ospite qualche giorno fa del prestigioso e algido Institut du Monde Arabe su invito del suo traduttore francese, stava parlando ad un folto pubblico del suo ultimo romanzo, Automobile Club, da poco tradotto in francese, quando ecco che dalle sedie di fronte al palco si leva una voce: “Chiedo scusa dottore, posso parlare?”

Gilles Gauthier, il traduttore, si interrompe e ricorda a chi ha parlato che gli interventi del pubblico sono previsti alla fine dell’incontro perché “Ora si parla di letteratura, solo di letteratura”. L’uomo insiste, così come Gauthier nel porre fine all’interruzione. A quel punto il primo si alza in piedi e tira fuori la foto dell’ex Presidente egiziano Morsi. Altre mani si sollevano, formando il quattro con le dita. Alcuni uomini si alzano, altri indossano in fretta le maglie gialle con la mano nera a quattro dita (simbolo del massacro di Rabaa al-Adaweya del 14 agosto scorso, in cui morirono centinaia di manifestanti pro Morsi, sgombrati con la forza dall’esercito). E nella grande sala parigina si scatena il putiferio: slogan scanditi a voce alta, persone che salgono sulle sedie, Al-Aswani che viene fatto uscire dalla sala e scortato verso la scala d’emergenza.

L’incontro è finito, ma non è finita invece la dimostrazione di quelli che sembrano a tutti gli effetti dei simpatizzanti dei Fratelli Musulmani. “Abbasso i militari, abbasso i militari! Sisi (il generale a capo dello SCAF che ha deposto Morsi) dimettiti”, recitano gli slogan gridati dai manifestanti parigini. Ce l’hanno con Al-Aswani, accusato di sostenere il regime militare e di avere chiamato i Fratelli Musulmani con l’appellativo di “fascisti”.

Lo scontro politico tra militari e islamisti che stringe l’Egitto in una morsa è arrivato anche nelle sale parigine dell’IMA, il tempio della cultura arabo-islamica per tutti gli arabisti e studiosi d’Oltralpe.

C’è chi dice che c’era da aspettarselo, viste le ultime dichiarazioni dello scrittore, non nuovo negli ultimi anni ad uscite piuttosto controverse o poco chiare. In un’intervista a Repubblica pubblicata a luglio così infatti affermava: “L’Islam politico ha provato a realizzare il fascismo e restare al potere per sempre, ma non ci è riuscito”.

Ad agosto su L’Inkiesta apprendevamo che: “Sisi non ha iniziato la rivoluzione, l’esercito invece ha protetto le masse. L’esercito ha difeso il paese. Io ho sempre criticato la giunta militare, mi hanno accusato 12 volte in processi militari anche per distruzione dell’immagine del Paese, ma ora sostengo il governo dell’esercito”.

Affermazioni, non solo queste, che hanno lasciato perplessi molti degli estimatori del grande scrittore, autore del libro forse più venduto nel mondo arabo degli ultimi decenni, Palazzo Yacoubian. Il libro uscì in Egitto nel 2002 e fu il caso letterario di inizio millennio, con le vendite che raggiunsero circa 200 mila copie (fonte: R. Jacquemond).

Fu con Palazzo Yacoubian che l’Occidente riscoprì la narrativa in arabo all’indomani degli attentati dell’undici settembre (in inglese il romanzo uscì nel 2004, mentre in Italia è stato pubblicato da Feltrinelli nel 2006, tradotto da Bianca Longhi) e gridò al “nuovo” Nagib Mahfouz. Fu con Palazzo Yacoubian che vennero messi a nudo molti tabu e che trovarono voce molte delle rivendicazioni che covavano da anni nella società egiziana.

Sempre critico nei confronti dell’ex ra’is Mubarak e co-fondatore del Movimento Kifaya, Al-Aswani è stato in prima linea tra le fila dei manifestanti di piazza Tahrir, fin dall’inizio delle proteste nel 2011. Come ha raccontato in un’intervista a Vincenzo Mattei del Manifesto, uscita a luglio 2011, sono stati proprio i giovani di Tahrir e le manifestazioni a dare nuova linfa al romanzo su cui stava lavorando in quel periodo, Automobile Club, che dovrebbe arrivare in italiano nel 2014.

Ma Alaa Al-Aswani non è l’unico scrittore egiziano ad avere rilasciato dichiarazioni in supporto all’esercito che hanno fatto storcere più di un naso, in Occidente e in Egitto. Anche il giovane autore di Vertigo, Ahmed Mourad, ospite dell’ultimo Festivaletteratura di Mantova, qualche settimana fa aveva detto che in Egitto “si starebbe creando un’unione tra i cittadini, l’esercito e anche la polizia”. Affermazioni che trovano eco nelle parole dello stesso Al-Aswani, come riportato dall’Huffington Post Maghreb.

Per non parlare dell’anziano ma combattivo Sonallah Ibrahim, autore di opere come La commissione, romanzo scritto nel 1981 e fortemente critico nei confronti dei regimi autoritari arabi, il quale in una recente intervista apparsa su Mada Masr aveva confermato il suo appoggio al governo militare e a Sisi, nuovo uomo forte dell’Egitto.

giovedì 17 ottobre 2013

Editoriaraba - “Ti ho amata per la tua voce”, e quell’amore che non può avere fine mai


Lucilla Parisi ha letto e recensito per Editoriaraba il libro “Ti ho amata per la tua voce” di Selim Nassib dedicato alla cosiddetta Callas araba, definizione un po’ ad effetto, ma Umm Kulthum è stata una grande voce e un simbolo del panarabismo. Il libro è interessante e molto delicato (ndr).

di Lucilla Parisi

Lo scrittore libanese Sélim Nassib ci racconta la storia della più nota cantante araba del secolo scorso, Umm Kulthum, e lo fa attraverso le parole di uno dei poeti che contribuì, con i suoi testi, ad accrescere la fama della Stella d’Oriente: Ahmad Rami.

L’artista egiziana, che dominò la scena musicale dagli anni Trenta sino alla sua morte, avvenuta nel 1975, viene descritta in queste pagine come la donna che, grazie alla sua determinazione e lungimiranza, seppe ottenere, non solo dai suoi fedelissimi ammiratori, ma anche dal potere e dai suoi più agguerriti antagonisti, il massimo rispetto e il pieno riconoscimento.

Una grande conquista per Umm, nata in un piccolo villaggio sul delta del Nilo, Tamaya al-Zahariyya e figlia dell’imam della moschea locale. Ancora molto giovane si trasferì al Cairo per ricevere una educazione adeguata: iniziata alle tradizioni della scuola egiziana classica del Novecento, sviluppò il talento musicale più sorprendente del secolo.

“Oltre a interpretare le forme più rigorose della canzone in arabo letterario, la qasida derivata dai modelli dei grandi poeti classici dell’Islam, Umm si è dedicata a generi innovativi più agili, generalmente in arabo colloquiale, come dawr, a carattere semi-improvvisativo; taqtuqa, considerata come la canzone leggera tra le due guerre; e munulug, una sorta di canzone narrativa nella quale la musica aderiva liberamente al significato del testo privilegiando l’effetto drammatico”.
(dalla postfazione al romanzo di Paolo Scarnecchia)

Sélim Nassib ci regala un ritratto umano e poetico di questa Diva, descritta con gli occhi dell’amore che Ahmad Rami nutrì per lei nel corso di una vita. La vicinanza del poeta e della cantante, che seppe interpretare con uno stile originale e del tutto personale i testi del suo autore prediletto, è scandita non solo dai testi delle canzoni d’amore scritte per lei e a lei dedicate, ma anche da una passione profonda che non trovò mai il suo atteso coronamento.

I destini dei due protagonisti procedono paralleli, scortandosi in una sorta di unione professionale e da una corrispondenza amorosa impossibile da realizzare. L’ascesa di Umm tra le stelle del firmamento della canzone araba la obbligherà ad operare delle scelte di vita inconciliabili con il sodalizio esclusivo venutosi a creare con Ahmad Rami.

L’Egitto in cui si diffonde la fama della Stella d’Oriente è quello che vede il passaggio dalla monarchia filo-britannica alla Repubblica; è il Paese della Rivoluzione del 23 luglio, del re Fārūq prima e del colonnello Gamal Abd el-Nasser dopo e del suo progetto panarabista di cui la stessa Umm Kulthum si fece interprete e punto di riferimento per il popolo arabo, anche in seguito alla disfatta della Guerra dei Sei Giorni (1967).

È il tempo del cambiamento anche per la canzone tradizionale che non può sottrarsi alle influenze e alle spinte moderniste provenienti dall’Occidente, ma anche dallo stesso mondo artistico e musicale egiziano. La diffusione dei mezzi di riproduzione e diffusione quali la radio, il cinema e la televisione consentirono alla cantante di raggiungere i Paesi del Vicino Oriente e di adattare il proprio repertorio ad un pubblico sempre più numeroso, che attendeva trepidante i suoi concerti. Divenne così la voce ufficiale di Radio Voce del Cairo, che trasmetteva non solo le sue più note canzoni d’amore, ma anche versi decisamente patriottici.

Nel romanzo di Sélim Nassib ritroviamo i passaggi più salienti di questa straordinaria esistenza, dai primi anni della formazione al funerale memorabile, in cui la bara fu sollevata e fatta passare di mano in mano sulla folla. Il tutto narrato dalle parole del poeta Rami che l’autore ci descrive come irrimediabilmente divorato dall’amore-ossessione per quella donna da cui non riuscirà mai ad allontanarsi definitivamente.
Umm Kulthum in chiave pop
della designer libanese Rana Salam

“Avrei potuto dirti che era la mia gioventù, tanto tempo fa, parlartene come di un amore violento ma superato, uno di quegli amori che si possono finalmente guardare con occhi da nonno. Ma arde come il primo giorno, sempre così nuovo, cosa ci posso fare”.

Oltre a Rami, altri poeti e musicisti si alternarono sulla scena e nella vita professionale di Umm, tra cui il celebre suonatore di liuto Muhammad al-Kasabji e il cantante e compositore  Mohammed Abd el-Wahaab.

Il libro è una testimonianza, seppur romanzata, di un’esistenza grandiosa, quella di una donna che ha segnato la storia di un popolo, lasciando dietro di sé un ricordo personale ed un patrimonio artistico-musicale inestimabili. La narrazione in prima persona, come una sorta di diario postumo dei giorni che furono, rende perfettamente il significato dell’affinità e del sentimento che legò il poeta alla cantante, qui ritratta nella sua grandezza, ma anche nella sua umana fragilità.

“Non chiedevo tanto. Ho cercato di cantare nel miglior modo possibile […]. Ho passato l’esistenza a misurare un lungo, interminabile palcoscenico di legno, che si prolunga di paese in paese. Sono sempre stata dallo stesso lato, in piedi, con la luce dei proiettori negli occhi, a cantare un’unica canzone. Come se avessi vissuto solo un attimo, ma eterno, un’unica nota tenuta a lungo, fino alla fine”.

***
Sélim Nassib è nato nel 1946 a Beirut e vive a Parigi. In Italia sono stati pubblicati, oltre a Ti ho amata per la tua voce, anche L’amante palestinese e la raccolta di racconti Una sera qualsiasi a Beirut, sempre pubblicati dalle Edizioni e/o.

Ti ho amata per la tua voce, di Sélim Nassib – (Settima ristampa, Tascabili Edizioni e/o, marzo 2010). Traduzione dal francese di Barbara Ferri. Titolo originale: Oum (1994).

giovedì 10 ottobre 2013

Editoriaraba - Elias Khoury: la fine è il mio inizio

Al Festival Internazionale di Ferrara Elias Khoury ha parlato di letteratura insieme alla Prof.ssa Bartuli, arabista, traduttrice, docente dell’Università di Venezia nonché sua “voce” in italiano.


di Giacomo Longhi

A Ferrara, il Festival di Internazionale ha avuto quest’anno un ospite d’eccezione: lo scrittore e intellettuale libanese Elias Khoury. Tra le maggiori voci intellettuali del mondo arabo, Elias Khoury oltre ad essere romanziere è giornalista e professore di Letterature comparate alla New York University. Internazionale traduce e pubblica periodicamente le column settimanali che scrive per il quotidiano panarabo al-Quds al-Arabi e lo ha invitato quest’anno a partecipare a due panel, uno più politico, e il secondo dedicato alla sua attività di scrittore.

Sabato scorso, davanti a un pubblico straripante (Editoriaraba e altri non sono riusciti ad accedere all’evento), Khoury ha quindi dialogato con Gad Lerner di politica in Medio Oriente. Domenica pomeriggio, invece, in una sala sempre al completo, l’autore di Il viaggio del piccolo Gandhi è stato intervistato da Elisabetta Bartuli, la traduttrice di Elias Khoury in Italia, accompagnando il pubblico in un affascinante viaggio letterario.

L’intervento di Elisabetta Bartuli è partito dall’analisi dell’ultimo romanzo di Khoury, Sinalcol (2011), in corso di traduzione in italiano: Bartuli ha osservato come quest’opera concluda il pensiero dell’autore sulla guerra civile libanese. Il titolo (dallo spagnolo “senz’alcol”) è ispirato al nome di un leggendario combattente, la cui ombra aleggia sulla storia dei due fratelli protagonisti del romanzo. Fortemente legati al padre, in apparenza simili ma profondamente diversi, durante la guerra andranno a combattere su fronti opposti: uno si unirà alle milizie fasciste, l’altro a quelle di sinistra. Col loro incontro, dieci anni dopo, comincia un percorso a ritroso nei ricordi che, dagli anni Cinquanta a oggi, traccia la storia della generazione che nella guerra civile è andata incontro al proprio fallimento. Ma Sinalcol è anche un’animatissima tale of two cities, Beirut e Tripoli, luoghi simbolo delle contraddizioni libanesi.

Sebbene i romanzi di Khoury sembrino ancorati ad un localismo preciso, i loro significati sono universali. È questo, secondo Elisabetta Bartuli, il pregio della buona letteratura: prestarsi a più letture e, usando le parole di Khoury, “poter migrare".

“Se i testi non migrano non hanno valore” ha affermato lo scrittore, il quale ha anche ricordato come quella che a suo avviso è la più grande opera letteraria mai scritta, Le mille e una notte, non sia altro che il risultato di migrazioni letterarie.

Scritte in arabo, Le mille e una notte sono anche persiane, indiane e cinesi. Khoury rifiuta l’idea di una letteratura autentica, ancorata a un’identità nazionale. La letteratura, per sua natura, è ambigua, sfugge alle classificazioni. Altrimenti, non sarebbe stato possibile per Khoury assistere a New York ad una rappresentazione teatrale sui migranti in America Latina dove ogni singola battuta era tratta da La porta del sole.

Se il romanzo che racconta la storia Palestina, dalla Nakba agli accordi di Olso, è valso al nostro autore il riconoscimento del grande pubblico, la presa di coscienza di essere, sì, un vero scrittore è avvenuta per Khoury scrivendo Facce bianche, il romanzo che narra dell’esperienza palestinese in Libano durante la guerra. Beirut allora era in piena guerra civile e Khoury militava nei gruppi di sinistra vicini all’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina).

Quando il romanzo uscì nel 1982 l’OLP lo mise all’indice per le forti critiche espresse sul movimento.

“È stato l’unico libro che l’OLP abbia mai censurato. Ho realizzato solo allora quanto fosse fondamentale per uno scrittore dire sempre la verità, qualunque essa sia”.

All’inizio l’idea era di scrivere solo un racconto, ma poi la storia “è cresciuta tra mie mani fino a diventare quel romanzone di oltre duecento pagine che è”.

È quasi un miracolo che Facce bianche sia stato scritto e pubblicato. L’autore ricorda che un giorno, mentre stava lavorando alla stesura del romanzo disteso sul suo letto, sua moglie l’aveva chiamato dall’altra stanza per riparare un guasto al televisore. “Evidentemente era convinta che, quanto a tecnologia, fossi più esperto di lei”. Mentre era intento ad armeggiare con i cavi, la camera da letto fu sfondata da una bomba:

“Ho veramente scritto quel libro sotto il costante rischio di morire!”.

La morte rimane per l’autore, “ateo incorreggibile”, una domanda aperta, un affaccio sul vuoto che, come nella poesia preislamica, pervade l’esistenza col sentimento dell’ignoto. Eppure è anche un punto di partenza:

“La fine è cosa nota, si muore. Forse per questo, nei miei romanzi, preferisco cominciare dalla fine. Gli inizi, paradossalmente, sono molto più problematici”.

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Nota bibliografica a cura di G. Longhi

Di Elias Khoury sono al momento disponibili in italiano quattro romanzi, tutti tradotti da Elisabetta Bartuli:

Yalo, Einaudi 2009

Facce bianche, Einaudi 2007

La porta del sole, Einaudi 2004

Il viaggio del piccolo Gandhi, Jouvence 2001

Suoi contributi sono contenuti in:

Libano. Frammenti di storia, società, cultura, cura di E. Chiti, Mesogea 2012

Samir Kassir, L’infelicità araba, cura di E. Bartuli, Einaudi 2006

Id., Primavere. Per una Siria democratica e un Libano indipendente, cura di E. Bartuli, Mesogea 2006

Lo sguardo libanese. Rappresentare il Mediterraneo, Mesogea 2002

Nel 2014, oltre alla traduzione di Sinalcol, per Feltrinelli è prevista la ristampa di La porta del sole nell’Universale Economica

martedì 8 ottobre 2013

Editoriaraba - Leggiamo di Siria


Due libri, due approcci differenti, un obiettivo: cercare di approfondire quanto sta succedendo in Siria oggi. Lorenzo Trombetta, giornalista italiano e ricercatore, fondatore di SiriaLibano e collaboratore dell’ANSA e di Limes, tra gli altri, e Shady Hamadi, giornalista e attivista italo-siriano, sono stati tra gli ospiti del Festival di Internazionale di quest’anno.

Sabato 5 ottobre a Ferrara, all’interno di tanto gelido quanto suggestivo Mercato Coperto, un folto e attento pubblico li ha ascoltati mentre parlavano di Siria, e presentavano i loro due libri, rispettivamente: Siria. Dagli Ottomani agli Asad. E oltre (Mondadori, 2013) e La felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana (Add editore, 2013).

lunedì 7 ottobre 2013


Librarie Millefeuilles
La Marsa - Tunis
Samedi 12 Octobre, à partir de 17h

Présentation du premier roman de l’écrivain tunisien Saber Mansouri, «Je suis né huit fois», paru aux Editions du Seuil.

Le souffle d’une vie naît d’une rencontre entre un enfant devenu jeune adulte, Massyre, et un lieu, la Montagne Blanche, particulièrement apprécié par tous les conquérants venus visiter la Tunisie, y compris les frères protecteurs armés français. Le lieu est unique. Massyre est multiple. Il y a d’abord ses sept sœurs et leur destin qui le regardent en silence, lui, le garçon, le huitième. Et puis, il y a ses huit métiers : suiveur de chèvres jusqu’à l’abattoir, chercheur d’Helix aperta, l’escargot souterrain, vendeur de fruits sauvages, d’eau à la criée, de boissons gazeuses, négociant en journaux au kilo et fripier. Tout en commerçant, Massyre va à l’école puis à l’université, fait une rencontre déterminante avec la problématique et l’Histoire, et devient professeur au lycée de sa région natale. Mais, sauf à partir ailleurs, au-delà de la Montagne Blanche, peut-on enseigner le passé dans le lieu de son commerce et de sa propre histoire ?

A propos de l’auteur
Né en 1971 en Tunisie, Saber Mansouri enseigne à l’Ecole pratique des hautes études. Helléniste et arabisant, il est l’initiateur et le directeur de la collection “Maktaba” lancée chez Fayard en mai 2003 et destinée à faire connaître des textes inédits de la culture arabo-musulmane.
Actes Sud / Sindbad a publié son essai L’Islam confisqué (2010).

Regards sur l'ancienne communauté italienne de Tunisie


www.leaders.com
2011-01-02
Par Alessio Loreti
           
Jusqu’au milieu du 19ème siècle la communauté italienne de Tunisie est constituée de riches marchands juifs toscans ainsi que d’Italiens capturés lors d’opérations de corsaires tunisiens à travers la mer méditerranéenne. Nous pouvons diviser en plusieurs phases l’histoire de la présence italienne en Tunisie entre le 19e et le début du 20e siècle.

Entre 1815 et 1861, la collectivité italienne est composée de quelques milliers d’activistes politiques, francs-maçons, intellectuels, en provenance des régions centrales et septentrionales de la Péninsule, ayant trouvé refuge dans la Régence de Tunis. Il y a des tentatives d��organisation de la communauté : une école embryonnaire est fondée (1821), une première typographie voit le jour (1829), un journal de langue italienne apparaît (1838).

Entre 1861 et 1881 le peuplement italien s’accélère, cette fois-ci avec l’arrivée de migrants non qualifiés originaires surtout des îles (Sicile, Pantelleria, Sardaigne, Procida, etc.) ainsi que d’autres régions défavorisées du Midi. Dans la Régence de Tunis la colonie, par le biais de ses propres institutions - écoles, journaux, sociétés philanthropiques etc. - joue un rôle politique actif, visant à contrebalancer une croissante influence de la France qui impose son protectorat en 1881. Néanmoins la communauté continue de s’agrandir et à partir de 1896, date de l’accord franco-italien confirmant le statu quo des Italiens ainsi qu’il avait été défini par le traité italo-tunisien de 1868, les relations entre les deux communautés semblent se détendre jusqu’à la fin de la première guerre mondiale.

Les Italiens continuent de contester le protectorat français prétextant des raisons géographiques, historiques, ainsi que le poids d’une colonie qui est numériquement de loin la plus importante parmi toutes: en 1901, il y a en Tunisie 72.000 Italiens contre seulement 24.000 Français (Loth, 1905 : 162, 488). La période qui va de 1925 à 1943 voit la fascisation de la diaspora italienne, le renforcement des antagonismes politiques et le déclenchement de la grande guerre.

Entre 1943 et 1970, suite aux bouleversements de la seconde guerre mondiale et post-coloniaux, la communauté disparaît ou presque de Tunisie.


Une colonie multiforme

La colonie d’expatriés italiens en Tunisie se caractérise par l’hétérogénéité de ses ressortissants, les ambivalences de leurs rapports vis-à-vis de la Mère Patrie ainsi que du colonisateur français. Vrais acteurs de la colonisation du pays ou simplement des réfugiés économiques et politiques, apatrides ou presque, bénéficiaires passifs de l’aubaine du colonialisme ? Persécutés par le colonisateur français, nationalistes voire fascistes, héros malheureux ou jouets de l’impérialisme italien ? Différents portraits peuvent être proposés selon le regard de l’observateur. Albert Memmi par exemple, dans son célèbre Portrait du colonisé, assimile les Italiens de Tunisie aux « mystifiés » du colonialisme :

« La pauvreté des Italiens est telle qu’il peut sembler risible de parler à leur sujet de privilèges. Pourtant, s’ils sont souvent misérables, les petites miettes qu’on leur accorde sans y penser, contribuent à les différencier, à les séparer sérieusement des colonisés. Plus ou moins avantagés par rapport aux masses colonisées, ils ont tendance à établir avec elles de relations du style colonisateur-colonisé […] On comprendra que, pour déshérités qu’ils soient dans l’absolu, ils auront vis-à-vis du colonisé plusieurs conduites communes avec le colonisateur» (Memmi, 1957 : 42, 43).

Memmi ne mentionne pas la présence d’une élite italienne où émerge de bonne heure une composante italo-juive. Si ces Juifs italiens ne représentent qu’une minorité - ils ne sont que 1.333 sur 4.744 nationaux italiens en 1871, et 1.867 sur 67.420 en 1900... - ils restent cependant influents dans la Tunisie coloniale et en position presque paritaire avec le colonisateur français. Par ailleurs dans son œuvre Memmi tend à mettre en scène des personnages italiens sous forme de clichés; dans la Statue de sel par exemple, un certain Giacomo, italien ou maltais on l’ignore, est l’acteur de jeux sexuels auprès des garçons du lycée Carnot :« [un] grand élève s’offrait pour caresser précisément et jusqu’à la jouissance tous ceux qui le désiraient »(1984 : 257).

Ce regard ne peut que confirmer une image péjorative: « Si les Italiens de Tunisie ont toujours envié aux Français leurs privilèges juridiques et administratifs, ils sont tout de même en meilleure posture que les colonisés. Ils sont protégés par des lois internationales et un consulat fort présent, sous le constant regard d’une métropole attentive » (1984 :42, 43). L’explication réside vraisemblablement dans les animosités intercommunautaires qui voient s’opposer les Juifs tunisiens habitant le ghetto de La Hara à Tunis (lesTounsa), dont Memmi est issu, et les Juifs italiens (les Grana) qui, tout comme d’autres Italiens aisés, ne manquent de montrer un certain manque de considération à l’égard des autres.

« Dans cette diversité, où n’importe qui se sent chez-soi et personne à l’aise, chacun enfermé dans son quartier, a peur de son voisin, le méprise ou le hait. La peur et le mépris nous les avons connus dès l’éveil de notre conscience, dans cette ville malodorante, sale et débraillée. Et pour nous défendre, pour nous venger, nous méprisions, nous ricanions….entre nous ; espérant être craints autant que nous craignions » (Memmi : 1985, 111).

Adrien Salmieri parle d'une sorte de fracture au sein de la colonie italienne, à un niveau social et culturel, entre une minorité d’enseignants, de notables, d’artisans et de commerçants gravitant autour du consulat d’Italie et de l’association culturelle Dante - qui se revendique italienne à part entière - et une masse populaire indifférente, souvent aux identités fragiles, déracinée et sans repères, candidate potentielle à la naturalisation française, car elle trouve au sein de la nation du protecteur les moyens pour satisfaire les besoins quotidiens qui lui sont niés. Mais contrairement à la masse d’ouvriers non qualifiés et de travailleurs prolétaires tous secteurs confondus, les quelques Italiens qui bénéficient d’une situation économique plus aisée, sont à la tête des réseaux associatif, scolaire, hospitalier et bancaire italiens crées en Tunisie dès la fin du 19e siècle.

Maîtrisant l’italien littéraire, ils aiment affecter leur différence par rapport à leurs compatriotes, très souvent analphabètes (estimés à 40% des ressortissants de la Colonie au lendemain de la première guerre mondiale). Cette minorité italienne de bourgeois, dominée par un clan de notables parmi lesquels on décompte de nombreux Grana, parvient à mener auprès de ses compatriotes plus démunis, une campagne civilisatrice parallèle à celle du colonisateur français. Adrien Salmieri écrit qu’en particulier « les Livournais, patriotes nationalistes, uniques et vrais gestionnaires de la colonie, vont tirer vers l’italianisation les grandes masses d’immigrés siciliens parfaitement étrangers sinon hostiles à ce qui est italien, et qui, en terre d’Afrique se sont naturalisés italiens .»

Finalement Memmi a bien raison de souligner que la condition des Italiens est en quelque sorte à mi-chemin entre « colonisateur » et « colonisé ». Il clarifie ce concept dans le passage suivant : « loin d’être refusés par le colonisateur, ce sont eux qui hésitent entre l’assimilation et la fidélité à leur patrie […] Ne bénéficiant de la colonisation que par emprunt, par leur cousinage avec le colonisateur, les Italiens sont bien moins éloignés des colonisés que ne le sont les Français » (Memmi, 1985 : 42, 43). Cette position intermédiaire et ambivalente leur est d’ailleurs inconfortable. Les Italiens vivent un sentiment de précarité, voire d'anxiété, surtout face à des conjonctures politiques qui échappent à leur contrôle. Ainsi, par exemple, suite à l’invasion italienne de la Libye en 1911, des Italiens vivant dans la Médina de Tunis sont assassinés pendant des jours d’émeutes anti-italiennes. Dans Le Pharaon de Memmi, roman situé dans la période de troubles qui anticipe l’indépendance de la Tunisie, des personnages implorent leurs bourreaux avant que ceux-ci ne les égorgent:« nous sommes Italiens nous vous n’avons rien fait ! » (1981 : 178).

Dans le dilemme entre la fidélité à la nation italienne, qui leur apparaît souvent distante, et l’assimilation française, imposée par le colonialisme, l’Italo-tunisien se retrouve partagé entre le courant nationaliste des siens qui le pousse vers un patriotisme intransigeant, voire à la gallophobie, et le protecteur français qui veut imposer son influence dans le pays, tout en essayant d’accroître sa présence démographique par une politique d’encouragement à la naturalisation de tous les Européens.

Si la colonie italienne de Tunisie se caractérise par l’hybridité des apports identitaires, elle subit plus particulièrement une forte influence de la part de la culture française qui est perçue comme étant en compétition avec la sienne. En règle générale, les ressortissants issus de la communauté, déclare le réalisateur italo-tunisien Bivona, ont souvent recours à un langage qui est « la somme de toutes les langues ». Expression linguistique hétéroclite, ce parler sicilien local qui multiplie les emprunts à l’arabe populaire est la langue maternelle d'une bonne partie de la communauté et constitue un jargon familial parlé dans les lieux publics où « chacun parle à sa façon et tout le monde se comprend ». Mais il est évident que de nombreux artistes et intellectuels italiens optent pour le français ; c’est le cas du poète Mario Scalesi qui écrit :« c’est elle [la langue française] qui donnera aux races peuplant ce pays leur unité intellectuelle, car c’est en elle seule que leurs mentalités diverses pourront fusionner ».

Salmieri nous explique comment son message italien de langue française est plus « universel » car [il] « aura plus de chances d’être entendu que s’il écrivait en italien ou en calabrais, et c’est cela qui constitue une mutilation bien que potentielle […] le choix du français, pour paradoxal que cela puisse sembler, se présente comme un moyen de sauvetage de la langue et de la culture d’origine » face à « une perte effrayante de l’identité linguistique mais encore de celle culturelle : de l’identité tout court ».

Dans les années 1930 Giovanni Wian, un nationaliste engagé dans la défense de l’identité italienne face à l’acculturation française, déplore l’excessive diffusion du français parmi les ressortissants italiens de Tunisie – tout comme au Moyen-âge, lorsque le poète Sordello écrivait en provençal, rappelle-t-il - qui ignorent leur propre langue car ils fréquentent souvent les écoles françaises : « la majorité de nos travailleurs de Tunisie ne connaît pas l’italien ou le parle mal » (Wian : 1937, 232).

Il fait remarquer par ailleurs que les Italiens veulent se distinguer en parlant le français qu'ils déforment par leur mauvaise prononciation. Et encore : « partout […] ils ne parleront que le français, l’unique langue qu’ils connaissent correctement […] par conséquent même si Italiens et de sentiments patriotiques ils seront un instrument de propagande auprès de leurs compatriotes du moins pour la langue française. Dans combien de cas cela est la première condition pour les naturalisations ! » (Wian : 1937, 232). Néanmoins il faut rappeler les efforts de nombreux Italiens de Tunis qui ont voulu écrire leur œuvre en italien. C’est le cas de l’écrivain italophone Francesco Cucca, autodidacte d’origine sarde, auteur d’un roman et d’autres écrits.

Dans un article consacré aux Italiens de Tunisie Laura Davì raconte : « un jour, un ami tunisien m’a dit que sa grand-mère, qui habitait Bizerte près du quartier italien, n’aurait jamais cru qu’une intellectuelle comme moi pût être italienne […] D’après elle, tous les Italiens étaient des mécaniciens ou des pêcheurs ». Les Italiens de Tunisie correspondent à un imaginaire populaire qui les voit dans les aspects les plus caricaturaux et en général dans une dimension « prolétaire ».

Pour conclure, le poète tunisien Majid El Houssi (1941-2008), italien d’adoption, a voulu en quelque sorte démentir les « calomnies » dont auraient été victimes les Italiens en Tunisie. Dans son roman Une Journée à Palerme (2004), qui est finalement un hymne à la culture sicilienne, il écrit :

« […] tout mon avenir pouvait être dévié ou axé d’une manière inattendue sur un pays si proche, voisin presque, l’Italie. Un pays que nous avons tous, à cause du colonialisme, confondu avec quelque chose d’autre, oublié ou tout simplement ignoré, comme on ignore la petite phrase unie qui traverse le gros brouhaha des maraîchers, le ronflement des voitures… Une si grande langue, une culture si vaste, une histoire que nous partageons depuis Rome… étaient ainsi mises entre parenthèses à cause du dominant français mais pas exclues du cœur du promeneur » (El Houssi : 2004, 61)

giovedì 3 ottobre 2013

Tunisia, meta d'autunno




Su "Bell'Europa" di ottobre 2013 da pagina 129 il mio libro "Chiacchiere, datteri e thé. Tunisi, viaggio in una società che cambia" (Albeggi Edizioni) fa da guida ad una meta suggestiva e a prezzi contenuti, tra storie e rivolte, cultura e bellezza naturale, musei, luoghi di incontro, ristoranti e hotel.