lunedì 23 settembre 2013
Editoriaraba - “Creatura di sabbia”, creatura di niente: la parola di Tahar Ben Jelloun
Editoriaraba inaugura una rubrica settimanale dedicata al Marocco. Recensioni, analisi, anteprime, scrittori, libri e librerie ci accompagneranno in questo breve viaggio nel mondo letterario e culturale del Marocco.
Si comincia con una recensione di “Creatura di sabbia” di Tahar Ben Jelloun a firma di Lucilla Parisi. Questo intenso romanzo è stato il primo che ho letto dell’autore marocchino e forse l’unico che mi abbia davvero colpita. È stato l’utilizzo della forza della parola da parte dell’autore che mi ha avvinta. La storia narrata non ha davvero fine perché è una storia circolare e perché la parola avvolge il lettore nelle sue spire fin dall’inizio, finché questi si ritrova spaesato e confuso dalle mille versioni narrate. È un libro che richiede molta attenzione da parte del lettore e che forse, in alcuni punti, può infastidire. Ma la lettura, credo, vale assolutamente lo sforzo.
di Lucilla Parisi
“Ho un corpo di donna; vale a dire che ho un sesso femminile, anche se non è mai stato usato. Sono una zitella che non ha neppure il diritto di avere le angosce di una zitella. Ho un comportamento da uomo, o più precisamente, mi è stato insegnato a comportarmi e a pensare come un essere naturalmente superiore alla donna. Tutto me lo permetteva: la religione, il testo coranico, la società, la tradizione, la famiglia, il paese…e io stesso”.
La storia narrata in queste pagine è quella di Mohamed Ahmed, ma non solo. È quella delle voci che raccontano della bambina, l’ultima di otto sorelle, presentata al mondo dal padre come l’agognato erede maschio. Ad Ahmed verrà insegnato a mortificare il suo corpo, a modificare la voce, a comandare su tutte le donne della famiglia e, quindi, a sostituirsi al padre nell’attività di famiglia. Ciò che nessuno le insegnerà sarà gestire le pulsioni, i desideri e i sogni di una creatura femminile destinata per natura a essere se stessa. Il dramma che si compie nel corpo e nella mente di Ahmed la porterà con gli anni ad isolarsi in quella dimora divenuta la sua gabbia dorata, ad allontanarsi dalla famiglia incapace di amarla e dal mondo che di lei conosce solo un’immagine riflessa.
Tutto ciò che le accade, nel libro viene raccontato da varie voci come una favola orientale, ma il solo a conoscere la verità sulla sua atroce esistenza è lo stesso Ahmed anziano e a documentarlo è un diario su cui lei stessa aveva riversato le proprie allucinate confessioni, maturate in un clima di solitudine profonda.
L’intreccio del romanzo risulta quindi complesso: la voce dell’io narrante si intreccia con quella del cantastorie che ammalia la piazza di astanti riunitisi ad ascoltarlo, e che coinvolge nella narrazione, in un gioco di complicità e partecipazione, diversi altri aspiranti narratori che, con la loro personale visione, condurranno la storia alla sua conclusione. A chiuderla sarà il primo narratore, il quale non potrà che prendere atto della scomparsa delle parole dal libro di Ahmed:
“Il libro è vuoto. E’ stato devastato. Ho commesso l’imprudenza di sfogliarlo in una notte di luna piena. Illuminandolo, quella luce ha cancellato le parole una dopo l’altra…La maledizione era stata gettata su di me. Né voi né io sapremo la fine della storia”.
La pluralità di narratori finisce con lo spostare l’attenzione dall’oggetto narrato al soggetto narrante: un espediente narrativo che contribuisce a donare all’intero romanzo un’atmosfera da fiaba degna de Le Mille e una notte. Oltre al recupero della tradizione orale, gli accorgimenti utilizzati dallo scrittore marocchino sono molteplici, come lo sviluppo del racconto in sette sedute vespertine, in corrispondenza di ognuna delle sette porte della città.
Come spiega il curatore del testo Egi Volterrani: “questo schema proposto è via via stravolto sempre di più. Sopraffatto dal racconto diretto delle ossessioni sessuali che turbano profondamente il protagonista e della sua dolorosa, segreta, consapevole trasformazione in donna”.
Le angosce di Ahmed nascono proprio dal fittizio ruolo sociale e familiare a cui è stato destinato all’interno di una società che il protagonista critica duramente e per il quale prova una totale repulsione. La società in cui:
“Essere donna è una menomazione naturale della quale tutti si fanno una ragione. Essere uomo è un’illusione e una violenza che giustificano e privilegiano qualsiasi cosa”.
Lo stesso scrittore, che condivide una tale avversione per l’ingiustizia perpetrata per anni nei confronti delle donne, spiega però che: “il libro lo colloco più o meno negli anni Quaranta, quando il Marocco era ancora una colonia francese: allora nelle famiglie c’era questa ossessione del maschio, senza il quale il patrimonio andava disperso. Ma è vero che prima dell’Islam era molto peggio”. In Creatura di sabbia fa infatti dire al padre di Ahmed: “Prima dell’Islam, i padri arabi gettavano i neonati di sesso femminile in una buca e li ricoprivano di terra per farli morire. Avevano ragione: si sbarazzavano di una sventura”.
Con Creatura di sabbia, Tahar Ben Jelloun tesse una storia di innegabile ferocia in cui il mondo interiore, tutto femminile, di Ahmed è destinato a consumarsi e a morire nell’indifferenza e nella solitudine.
Il lettore non potrà fare altro che abitare quella solitudine alla ricerca delle parole che spieghino il dualismo e le contraddizioni di un corpo che vive come un uomo, ma che anela alla liberazione di sé.
“Negli ultimi tempi il mio corpo prova desideri sempre più precisi, e non so proprio come arrangiarmi per soddisfarli. […] Ho scelto l’ombra e l’invisibile. Ecco che il dubbio comincia a farsi strada come una luce cruda, viva, insopportabile. Tollererei l’ambiguità fino in fondo, ma non potrei mai esporre il viso nella sua nudità alla luce che si avvicina”.
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Creatura di sabbia, di Tahar Ben Jelloun; Einaudi 1987, 1992
A cura di Egi Volterrani. Titolo originale L’enfant de sable
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