lunedì 4 novembre 2013

Dialoghi del Mediterraneo - Bimestrale Istituto Euroarabo di Mazzara del Vallo


"Dialoghi del Mediterraneo" - Bimestrale Istituto Euroarabo di Mazzara del Vallo

La riconquista dello spazio pubblico: la cultura tunisina fra protesta e resistenza  

di  Federico Costanza


Le rivolte soprannominate “Primavere Arabe” hanno svelato la complessità e la frammentarietà delle società arabo-musulmane, in continua evoluzione già prima di tali eventi. Queste società, spesso considerate nella fissità della tradizione religiosa che le contraddistingue e caratterizzate da un alto tasso di crescita demografica, nascondevano in realtà un forte impulso al cambiamento politico.

Oggi ci si è resi conto che non è possibile comprendere fino in fondo i fenomeni socio-politici che hanno sconvolto quest’area se non si inquadrano in un contesto che fa del Mediterraneo non più soltanto lo snodo fra Oriente e Occidente, ma l’ingranaggio di un meccanismo ben più complesso e che riguarda l’intero processo di globalizzazione.

Le Primavere Arabe arrivavano in un momento storico caratterizzato da profonda incertezza economica e politica: il crollo delle Borse e la crisi economica, le politiche di tagli alla spesa pubblica, un mondo del lavoro sempre più precario e flessibile, contraltare alle restrizioni sulla libertà di movimento delle persone e alla rigidità delle leggi sull’immigrazione, la grande contestazione di Occupy Wall Street che si è presto diffusa in molte varianti in tutto il mondo.

In tale scenario globale si muove una generazione transnazionale che dall’Europa agli Stati Uniti, passando per il mondo arabo e l’Asia, fa della protesta il suo vessillo. Una protesta che si diffonde rapidamente, trasversalmente, che parte dalle istanze di gruppi sociali esclusi generalmente dai processi decisionali e che oggi, anche grazie alla più ampia diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, al loro forte impatto sociologico e alla eterogeneità dei loro messaggi, diventano i nuovi protagonisti dei processi di cambiamento economici e politici.

La diffusa scolarizzazione, ma soprattutto gli scambi culturali fra i giovani arabi e i loro coetanei europei, americani, asiatici, la condivisione di un terreno di comune confronto, tutti questi elementi sono alla base di un grande processo globale di cambiamento. Questo processo ha modificato radicalmente il quadro di riferimento ideologico e perfino i linguaggi in uso, trasformando la narrazione della storia con un inizio e “una fine”, come la intendeva Francis Fukuyama agli inizi degli anni ’90 celebrando il liberalismo politico democratico rawlsiano e clintoniano.

Occorre partire da qui per comprendere fino in fondo cosa è accaduto nelle società arabe, a livello culturale e artistico, già prima dell’inizio delle rivolte. Parallelamente alla spinta sociale delle masse, spesso anticipandole, in rivolta per le condizioni di vita e contro la corruzione dilagante dei regimi dittatoriali, le giovani avanguardie culturali escono allo scoperto, utlizzano i social network per organizzare le proteste, diffondono messaggi di riconoscimento universale: come accadde già nel 2004 in Egitto con le proteste del movimento Kifaya, i cui membri confluiranno poi in Tamarroud, la rivolta anti-Morsi del 2013; la Rivoluzione dei Cedri in Libano nel 2005, seguita all’omicidio del Premier Rafik Hariri; il Movimento Verde in Iran nel 2009. Si tratta di un vasto sommovimento di rivolta che incrocia una cultura del dissenso e porta a chiederci quale sia il ruolo assunto dalle élites culturali.

Ne emerge un dialogo culturale e artistico intenso fra le società arabe, un sottobosco censurato, filtrato, esiliato nel corso degli anni: sono gli artisti underground o “di strada”. La riconquista degli spazi, e particolarmente dello “spazio pubblico”, la strada, rappresenta una presa di coscienza collettiva, incalzante come una rolling stone. Un tempo erano gli intellettuali più raffinati a condurre l’evoluzione delle società arabe verso forme di dissidenza o anticonformismo. Oggi il ruolo delle piazze è preponderante.

Nella fattispecie tunisina, il 2010 fu un momento di svolta rispetto al passato nell’ambiente artistico e culturale, già due anni prima profondamente scosso dai sanguinosi fatti di Redeyef, la mobilitazione del bacino minerario di Gafsa repressa dalla polizia. Due importanti eventi artistici nazionali, la mostra collettiva “Le Printemps des Arts de la Marsa” (quanta lungimiranza in quel titolo…) e la Biennale d’Arte Contemporanea, il Festival Dream City, mostrarono le avvisaglie di un cambiamento incipiente. Tantissimi giovani artisti, tra nuovi talenti e artisti affermati, vi parteciparono con fervore e voglia di trasgredire, in un confronto reciproco e inconsueto con altri artisti europei partecipanti.

Mentre, però, Le Printemps restava nel solco delle manifestazioni culturali ufficiali,Dream City si affermò da subito come una vera e propria novità nel panorama artistico tunisino. Per la prima volta, l’arte si trasferiva dalle sedi istituzionali alla strada. Non si trattava di una semplice scelta formale, ma molto di più: gli artisti riconquistavano lo spazio pubblico, quello spazio negato dal regime di Ben Ali a qualsiasi forma di libera espressione. In strada, dove campeggiavano solo i vessilli del potere, il volto sornione e cinico dell’autocrate Presidente, era vietato discutere, esprimersi, criticare.

L’altra grande breccia aperta da Dream City nell’opinione pubblica fu avvicinare l’arte alla gente, collocando addirittura le opere nelle vie della Medina, il centro storico di Tunisi, nei quartieri più popolari, dentro i cortili delle case. All’indomani della Rivoluzione di Gennaio 2011, la creatività era accompagnata da un’euforia a lungo auspicata e repressa che si esprimeva dappertutto. La riconquista della libertà per i tunisini passava nuovamente dalla strada, ora teatro di animate discussioni politiche, comizi improvvisati.

La fotografia, disciplina così discretamente occultata ai tempi del regime, diveniva uno strumento di cronaca, ma anche di affermazione personale di se stessi, come nel progetto “Artocratie” del francese JR, in cui le gigantografie dei volti di gente comune tappezzavano monumenti e palazzi in tutta la Tunisia, suscitando anche aspre polemiche.

In un clima così rinnovato e carico di angoscia per il futuro della giovane Tunisia post-rivoluzionaria ci si chiedeva ancora: “Shkoun Ahna”? Chi siamo? Questo fu il titolo di una grande collettiva allestita in più spazi a Tunisi, che aggregò artisti provenienti da tutto il mondo arabo, a ricordarci che questa importante ondata di rivolte nel Mediterraneo rappresenta ancora un’inquietudine di tipo generazionale, che a tratti sembra quasi risolversi nella fenomenologia identitaria araba della “tribù”.

Tuttavia, ancora più a fondo in tale riflessione sulla propria appartenenza, le società arabe all’indomani delle rivolte cominciarono a interrogarsi sul ruolo della Religione. Questo è avvenuto anche in Tunisia, soprattutto all’indomani delle elezioni per la Costituente di Ottobre 2011 che videro la vittoria del partito islamico di Ennahdha. Progressivamente, gli spazi pubblici faticosamente riconquistati divennero sempre più stretti: da una parte l’affermazione dei diritti civili e politici; dall’altra la necessità di rilanciare il ruolo politico dell’Islam, sia come espressione di una classe media desiderosa di rivalsa, sia come nuova ideologia strumentale alle masse più povere della società.

L’apparente divisione fra laicismo e islamismo, così rappresentata dai media nazionali e internazionali, è in realtà la raffigurazione di un Paese molto eterogeneo, finanche nella morfologia etnica delle singole regioni, testimoni di molteplici civiltà nel corso della storia. La religione comunque rimane il collante dell’identità a lungo cercata, come un prisma attraverso il quale osservarne la frammentazione.

Nella contrapposizione interna alla società tunisina accade, infine, qualcosa di paradossale. Di fronte all’offensiva dell’integralismo religioso, il messaggio culturale di matrice panaraba insito nelle “Primavere Arabe” lascia il posto a un “patriottismo di emergenza”. Alla cieca violenza dei gruppi religiosi più intransigenti, espressa attraverso la distruzione di tele e istallazioni artistiche, minacce di morte propagate attraverso i social network agli artisti e attacchi pubblici diretti alla cultura, si risponde aggregandosi attorno ai valori fondanti della Repubblica tunisina.

Le maggiori manifestazioni culturali divengono quindi momenti di “resistenza”, a testimonianza che non si può più aver paura. “Plus jamais peur” (Mai più paura) è il titolo di un film documentario del regista tunisino Mourad Ben Cheikh invitato al Festival di Cannes nel 2011, la presa di coscienza che la libertà conquistata non può più essere perduta.

I recenti attacchi alla cultura, gli arresti di numerosi artisti e operatori culturali in un momento di massimo scontro politico e sociale rappresentano l’ennesimo passaggio del processo di affermazione della libertà di espressione. Dinanzi alla recrudescenza dell’estremismo religioso e politico, nonché al ritorno di ostacoli tangibili alla libertà di espressione, resta comunque la consapevolezza di aver acquisito una nuova fiducia nel futuro cui le avanguardie culturali non possono prescindere: non aver più paura.

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