giovedì 24 ottobre 2013

Editoriaraba - Tunisia: work in progress


di Chiara Comito

Oggi avrei voluto parlarvi dell’imminente Fiera del libro di Tunisi, che dovrebbe essere inaugurata domani 25 ottobre. Uso il condizionale perché non so se l’inaugurazione avrà luogo visto quanto successo nella giornata di ieri, che ha portato il Governo a programmare tre giorni di lutto nazionale. Staremo a vedere. Non sarebbe comunque la prima volta che una manifestazione letteraria come questa viene annullata o posticipata. Un precedente recente si era avuto in Egitto, qualche anno fa.
In attesa di avere qualche aggiornamento dagli organizzatori e dagli organi di stampa, vi segnalo la recensione del libro La rivolta dei dittatoriati, di O. Mejri e A. Hagi (Mesogea, 2013) che ho scritto per ResetDOC, in cui chiudevo dicendo che per costruire la società tunisina post-rivoluzione ci sarebbero voluti ancora molto tempo e molte “cure”…

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Se c’è una frase in grado di riassumere la relazione tra regimi oppressivi e rivolte è quella scritta dall’intellettuale marocchino Abdellatif Laabi nel suo ultimo saggio intitolato Un autre Maroc (Éditions de la différence, Paris, 2013): “L’oppressione finisce per produrre presso coloro che ha schiacciato un antidoto che fa risvegliare le coscienze e che fa bruciare nuovamente la fiamma della lotta”.
La Tunisia sotto il regime di Ben Ali era un Paese oppresso. All’interno di confini considerati stabili e democratici dall’opinione pubblica internazionale, la società tunisina viveva in una condizione schizofrenica, schiacciata tra le angherie e le ruberie del clan Ben Ali-Trabelsi, la repressione esercitata dalle forze di polizia e una censura pervasiva che annullava l’identità e l’anima dei tunisini.
Nello spazio da vivere residuale, necessariamente apolitico e privo di libertà, viveva (o meglio, sopravviveva) l’individuo, il dittatoriato del libro La rivolta dei dittatoriati, scritto a quattro mani da Ouejdane Mejri e Afef Hagi e di recente pubblicato da Mesogea. Le due autrici, la prima docente e ricercatrice universitaria, dottoranda in psicologia la seconda, entrambe attiviste per Pontes, l’associazione dei tunisini in Italia, così definiscono i dittatoriati: “esseri disciplinati dalla dittatura e condizionati per stare alle regole del controllo sistematico e della punizione arbitraria”.
Nei primi due capitoli Mejri e Hgi ricostruiscono la vita sotto la dittatura: parlare era pericoloso, scrivere e ascoltare lo era altrettanto. I sensi di un intero Paese erano stati messi a tacere sotto la minaccia di torture e intimidazioni. Chi sapeva non diceva e chi poteva emigrava in cerca di un presente e un futuro migliori, lontano da quella dittatura mascherata da democrazia in cui il potere era nelle mani del partito e della famiglia del Presidente.
Sono molto interessanti le pagine in cui le autrici descrivono il profilo di Ben Ali, arrivato al potere nel 1987 grazie ad un colpo di stato medico ai danni dell’anziano Bourghiba. Un golpe, ci ricordano le autrici, in cui l’Italia ebbe un ruolo non secondario e ben poco edificante. Ben Ali viene descritto come un personaggio del tutto privo di carisma ma ossessionato dal culto dell’immagine: “Non gli mancava mai il trucco, la tinta ai capelli e neanche il botox per mantenerlo giovane”. Un uomo che sembra fatto di cartapesta: solido all’apparenza, vuoto all’interno. Incapace di comunicare con il “suo” popolo, ma molto abile nel reprimere, nascondere, controllare e far apparire la Tunisia, agli occhi del mondo, come un partner commerciale e politico affidabile, oltre che un luogo di villeggiatura ideale.
Eppure, sotto la coltre di paura e silenzio, l’antidoto all’oppressione cominciava a manifestarsi e si andava declinando in diversi modi: boom demografico, informatizzazione della società, attivismo virtuale e reale. Continua su ResetDOC!

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